La mediazione familiare, come si sa, si ispira ad alcune idee-cardine:
- la fine del legame coniugale non può e non deve comportare la conclusione del rapporto genitoriale;
- le scelte sull'organizzazione e riorganizzazione del nucleo "diviso" spettano ai genitori;
- attivare un percorso di mediazione significa restituire alla coppia parentale la responsabilità dei compiti genitoriali;
- la gestione della bi-genitorialità comporta una sufficiente elaborazione del "fallimento" della coniugalità.
Può accadere, tuttavia, che i coniugi utilizzino l'evento separativo per mantenere immutate le dinamiche relazionali conflittuali che avevano indotto la separazione. Si dice, in questo caso, che essi cercano di "cambiare per non cambiare", ovvero che, nell'incapacità di svincolarsi l'uno dall'altro, utilizzino il conflitto come vincolo.
In questi casi, il ricorso alle procedure giudiziarie, alimentate da reiterati ricorsi, serve a perpetuare il conflitto, e dunque il legame, attraverso una sorta di guerra senza fine. Ne consegue che, piuttosto che concentrarsi sull'interesse dei figli, gli ex coniugi continuano a litigare su contenuti particolari, minimi, assunti, ovviamente a pretesto per preservare personali posizioni di potere. Essi non prestano neanche il proprio consenso alla partecipazione alla mediazione, preferendo continuare a combattere, utilizzando i figli. Gli esiti di questo confliggere a tempo indeterminato possono essere drammatici e condurre alla definitiva chiusura del figlio al rapporto con uno dei genitori, alla negazione dell'esistenza del genitore "assente", alla identificazione con il genitore affidatario col conseguente pericolo d'insorgenza di scompensi di carattere psicologico.
Da "CAMBIARE PER NON CAMBIARE" scritto da Anna Coppola De Vanna, pubblicato sulla rivista "Mosaico di Pace", n.6 - Giugno 2005, pag. 24-26